Francesco Jozzi

Francesco Jozzi

Artista catanzarese classe 1952.

Durante il periodo post adolescenziale si innamora dei dipinti e della storia di Vincent Van Gogh, personaggio distaccato dalla società il cui stile di vita lo affascina oltremodo. Proprio lo studio approfondito della ricerca artistica del famoso pittore di fine ‘800 smuove fortemente l’animo di Jozzi che decide di intraprendere la strada della pittura.

È il 1971 quando Jozzi muove i suoi primi passi da artista recandosi dal vero, en plein air, a riprodurre i paesaggi della sua terra.
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In questi anni sviluppa la sua tecnica pittorica, ma allo stesso tempo sente di non riuscire ad esprimere il suo reale stato d’animo: la morte dei suoi genitori e la solitudine in una casa che presto trasforma nel suo studio lo spingono a dipingere continuativamente, ad esprimere quell’impulso primordiale che a fine anni 70 si manifestò con i primi dipinti su poster, che diverranno iconici nella sua enorme produzione.

L'artista

recupera i manifesti pubblicitari dalla strada per modificarne il messaggio. Disegna diversi personaggi che appaiono in una stratificazione di pennellate energiche, collage di differenti consistenze e stampe pubblicitarie su manifesto. Svuota le strutture commerciali dal suo messaggio iniziale e contribuisce ad un’autentica lettura critica della società del suo tempo.

La freschezza della produzione

di Jozzi colpisce fortemente diversi collezionisti bresciani che nel 1983 promuovono la prima personale dell’artista catanzarese nella città lombarda: una mostra dal titolo “Primitivus indocilis” nella quale viene esposta per la prima volta un’opera magnifica di sei metri di larghezza che impressionò la critica del tempo: Silenzio oggi si uccide. L’arte di Jozzi comincia così ad essere apprezzata dai più importanti soggetti del mercato dell’arte contemporanea di quegli anni: nell’83 partecipa ad una collettiva a Spello accanto alle opere di Achille Perilli ed Emilio Scanavino.

Nel 1984

il collezionista Giorgio Fogazzi gli dedica l’intera sezione “Giovani artisti” dell’Artexpo di Brescia, all’interno della quale venivano esposte le opere dei più grandi del 900, da Depero a Man Ray, da Picabia a Lucio Fontana. È il momento più alto della produzione dell’artista, i manifesti di enormi dimensioni colpiscono la critica e Jozzi entra in contatto con diversi illuminati del tempo, come lo scrittore Aldo Busi e l’artista Guglielmo Achille Cavellini. Fu quest’ultimo a innamorarsi letteralmente della produzione di Jozzi tanto da inserirlo nelle sue opere di autostoricizzazione insieme ai più importanti artisti del 900.

FRANCESCO JOZZI È CREATORE DI FIABE DRAMMATICHE destinate agli adulti,

di misteriosi intrecci tra timide comparse presenti nell’accumulo della comunità. Uno scenario assurdo, ora oscuro ora docile e sereno. I colli e i borghi e i bambini con i generali, presenze eteree sullo sfondo minacciano la quiete della quotidianità stringendo con forza armi e il loro potere, signorotti ben vestiti fluttuano in un vuoto vertiginoso, immobili e comodi oziano e si compiacciono dell’altezza del loro sapere, velati da una foschia che sa di incantesimo. Una favola surreale figlia di un’immaginazione che non permette limiti, abitata da esseri schiavi, ingenui, furbi e sornioni, semplici e con cappello, composta da alture millenarie e borghi arroccati, da campagne sconfinate e sinistre facciate che si innalzano e si incastrano e dominano il visibile.

Nell’ombra appaiono sfocate le immagini dei ricordi dell’autore. Figure, volti e paesaggi di un’infanzia che, per quanto massacrata dagli eventi e dal fato, viene pur sempre rimembrata come incantevole e piena di magia, priva di ogni tipo di inquietudine perché sincera e spensierata. L’artista vive infatti i suoi primi anni di vita in un piccolo paesino completamente immerso nella natura della presila cosentina. Gioca insieme ai fratelli e agli altri bambini a perdersi nei boschi e allo scurire, senza pensieri, rientra a casa per lasciarsi accogliere e proteggere dalla donna più importante della su vita, la madre. O almeno, è ciò che si ricorda. Dura poco l’infanzia di Francesco Jozzi, perde troppo giovane i genitori ed è costretto a crescere prima degli altri. Vive in una solitudine straziante, pensa e ripensa al suo ruolo in questa vita, dall’alto osserva una società votata alla ricchezza e al potere della quale lui non vuole far parte. Allora dipinge, persone semplici e sincere che racchiudono un’infinta umanità sono diventate adesso il suo oggetto di studio, le campagne sono per l’autore l’unico luogo in cui riesce ad esprimersi, in cui ritrova la pace con sé stesso, lontano dalle paure di un mondo che lo disgusta.

L’immaginario di Jozzi è quindi continuamente influenzato dal suo percorso di vita. Il suo ritorno alla pittura rappresenta una necessità primordiale dell’espressione dell’io, un’esplorazione continua del percorso che porta al di sotto della coscienza, una scesa volontaria verso l’inconscio e il suo libero fluire delle immagini. Un moto invertito, non più dalla realtà oggettiva alla soggettività dell’uomo, ma al contrario dall’interno verso l’esterno, dallo spirito alla materia, un’altra materia ora nuova. “Bisogna veramente aver preso coscienza del tradimento delle cose sensibili per avere il coraggio di rompere definitivamente con esse, e maggior ragione con ciò che di facile il loro aspetto abituale ci propone” scriveva Breton, e Jozzi lo fa senza mezzi termini. La sua non è una mera riproduzione del reale e del suo vissuto ma una nuova realtà impressa di forza, d’istinto e d’impulso su qualsiasi materiale la società di oggi ci ha consegnato. Manifesti per immensi cartelloni, pubblicità stampate su riviste, giornali, carte di ogni peso e tipo, cartoni trovati in giro e cartoni cuoiati abilmente acquistati per la loro grana e resistenza infinita diventano il supporto ideale per fantasticare su un nuovo espressionismo, capace di colpire con forza il fruitore perché è specchio evidente di un’anima ricca e trascendente.

L’accumulo continuo di oggetti oltre che di fotografie e scarti della società ritrova in Jozzi un equilibrio misterioso, un caos infernale che automaticamente si riordina e si traduce in un dinamico collage di parole e immagini nuove e campionate dalla strada. Quella strada, forzatamente occupata dalla subdola falsità pubblicitaria, bombardata da una diffusa e distruttiva antiestetica, da un continuo accanimento mediatico, colori e parole, lavatrici, automobili, parole colorate, stoccafisso norvegese e pasta col sugo pronto, logo. Jozzi ne è turbato. È troppo sincero lui per rimanere immobile e recepire inebetito. Ma è anche affascinato da quella confusione stilistica, una mescolanza casuale e incontrollabile che l’autore traduce in gesti impulsivi da scagliare contro la frode visiva, per modificarne per sempre il significato e distruggerne l’obiettivo iniziale. I grafismi ossessivi radicati nello stomaco e nell’intuito di Francesco Jozzi costruiscono così le figure della disumanizzazione alla quale è soggetto l’uomo contemporaneo, una denuncia a questa nostra società, fondata sui solidi pilastri del consumismo e della tecnologia ora divenuta follemente narcisista, divorata dall’effetto farfalla scatenato dalla proliferazione di massa dei social network, capaci di collegare persone da tutte le parti del mondo e colpevoli di aver valorizzato un egocentrismo divenuto maschera di una profonda insoddisfazione e solitudine.

“Non dimentichiamo che per noi, in quest’epoca, è la realtà che è in gioco. Come si può pensare di accontentarsi del turbamento momentaneo che ci può dare questa o quell’opera d’arte? Non c’è opera che resista al nostro primitivismo, in questo senso integrale” – [Breton]-. Un primitivismo visuale che rispecchia lo stile di vita dell’autore, austero e affascinato dalla perfezione naturale, rifiuto di una modernità che rende piacevole e virtuale una realtà maligna e infelice. L’artista se ne distacca completamente e dall’esterno la osserva e la ridicolizza, disegnando le caricature di un mondo sempre più complesso. Jozzi dipinge il suono segnante che solo un grido di dolore può generare, l’urlo di un bambino che incolpevole piange la perdita della sua favola preferita. Pinocchio è morto, al suo posto nuove icone malvagie si cibano, sena mai raggiungere la sazietà, dei resti di un mondo incantato.

Siamo nel 1979 e lo stile che l’artista propone è fresco e potente: “La giustapposizione tra elementi diversi che preleva e prende in prestito dal suo quotidiano creano così narrazioni in grado di svelare in maniera ironica le strutture nascoste del potere e di metterne in luce l’arbitrarietà. Non si sta parlando di lui. In realtà sono le parole di Gianni Mercurio scritte per raccontare il lavoro Jean-Michel Basquiat, che pochi anni dopo sconvolse la critica newyorkese con un’iconografica sincopata e stratificata che segnerà per sempre il mondo dell’arte. Un’intuizione alla quale l’artista catanzarese arriva temporalmente prima del genio afro-americano. Ci arriva senza frequentare i bar, gli studi e gli ambienti che solo la New York degli anni 80 poteva offrire. Lo fa rimanendo rintanato nella casa dei suoi genitori, che adesso rispecchia soltanto il caos di un artista che l’ha trasformata nel luogo in cui far emergere il suo profondo disagio esistenziale attraverso un messaggio rivoluzionario.